Ecco il commento scritto da Maria Pia Giuffrida (Direttore del dipartimento amministrazione penitenziaria a Firenze) allo spettacolo del Cane Pezzato Oresteia 21 andato in scena nel 2005 al Teatro India.
Sono venuta ad assistere allo spettacolo Oresteia 21 con curiosità rispetto ad un’avventura di cui ho seguito i primi passi quando non molti mesi fa fu annunciata da Riccardo Vannuccini l’intenzione di creare, sotto il patrocinio della Provincia di Roma, una compagnia multietnica, che accogliesse persone diverse per cultura, età, provenienza, lingua, stato di vita, e tra gli altri alcuni soggetti in esecuzione di pena. Le luci si spengono e mi lascio trasportare dalle sensazioni: come sempre non mi aspetto di capire ma soltanto di “sentire” e sento il buio del palcoscenico, sento uno luogo senza limiti, un territorio senza margini dove una umanità composita si incontra e si riconosce. Per la verità non seguo la storia perché quello che rimbalza alla mia attenzione è il miracolo che avviene sulla ribalta che improvvisamente diviene uno spazio di parola per ciascuno e per tutti nello stesso tempo, palcoscenico di ciascun uomo e di ciascuna donna e del loro percorso soggettivo, della loro ricerca, del loro coraggio di superare i propri e gli altrui confini per rischiare l’incontro con l’altro. Il palcoscenico diviene lo spazio di una mediazione altrimenti impossibile, di un riconoscimento reciproco al di là delle differenze, uno spazio dove poter dire il non detto ed esprimere la propria anima. Il racconto si sviluppa, continua, ricomincia ed ognuno recita i ruoli prefissati, recita se stesso ma recita anche l’altro. Il racconto dà spazio all’urlo della sofferenza di tutti e di ciascuno, di quella sofferenza che ciascuno riconosce nell’altro. Ed ognuno ha la possibilità di ritrovare la parola e la possibilità di esprimersi, di recitare la propria crisi, di raccontare il conflitto, di cantare il proprio canto che scaturisce dall’anima e riporta alle più profonde radici antropologiche. La comprensione, il riconoscimento reciproco è la domanda forte di ciascuno che si snoda e si avviluppa attraverso la finzione scenica: il racconto, l’urlo, la catarsi sono i momenti di un rito che si ripete e che trova eco nell’altro che ripete a sua volta, con le stesse parole, anche se con lingue e idiomi diversi che non hanno più bisogno di interpreti. Il regista sta nell’ombra, emerge sotto i riflettori, scompare, si accovaccia, si nega e si impone, si avvicina e si allontana, sta ai margini e poi rilancia, recita e poi diventa spettatore egli stesso, rispecchia gli attori in un gioco continuo che tradisce un certo narcisismo ma anche una grande capacità di mediazione tra storia, attore e pubblico.
Maria Pia Giuffrida
Lascia un commento