tratto da http://www.teatroteatro.it
di Michele Ortore
Femmina è la ricerca di un’arte capace di restituire dignità alla carne, al materico, all’irrazionalità sacra del mondo: in questo, si avvicina a larga parte del teatro di Artaud, o ad alcuni modelli letterari surrealisti. È uno spettacolo forbito, privo di trama, costituito essenzialmente da lunghe sequenze di movimenti corali, inframezzate da citazioni rapsodiche, che vanno da Eliot alla Brönte a Shakespeare. È uno spettacolo civile, finanziato dalla Provincia di Roma, realizzato da una compagnia multietnica e legato ad una costellazione di eventi che animeranno la Capitale e i Castelli per due settimane; è la risposta di un teatro che vorrebbe essere capace di rappresentare la modernità: non di fornirne un’immagine nuova, ma semplicemente vera.
Il lavoro del regista Riccardo della Pietra è di grande qualità. Le sedie e i banchi della scenografia danno vita a scene sempre diverse, visionarie: si parte da un condominio che sarà presto sfollato, e da lì in poi ci saranno solo momenti atomizzati. Le parole accennate di una donna incinta, una sorta di lezione su apparenza e realtà, attimi musicali. All’inizio della rappresentazione un filo rosso attraversa la scena: quasi subito viene tagliato, e da lì in poi l’illusione di trovare nella pièce un cenno di coerenza cade. Perché nella modernità non esiste più un fil rouge. È inutile cercarlo nelle voci degli attori, che parlano nelle proprie tante lingue diverse, e che fra l’altro spesso il pubblico non riesce a distinguere. Scelta, questa, che da una parte rientra sicuramente nell’intento di rappresentare la confusione della contemporaneità, ma dall’altra impedisce allo spettatore di percepire alcune frasi che, se sono state scelte dall’autore, dovevano essere significative. I monologhi, in cui sono racchiuse le citazioni di cui si parlava, emergono all’improvviso, recitati al microfono, e all’improvviso si spengono, senza senso: il linguaggio teatrale viene decostruito dall’interno.
I movimenti corali sono studiati e puntuali, così come l’uso delle luci, che a volte lasciano in penombra il proscenio, sempre all’interno di quel gioco pirandelliano, alla Sei personaggi in cerca d’autore, che contraddistingue tutto Femmina. Altrettanto brillante è la prova degli attori, ovviamente vincolati al linguaggio corporeo: vale la pena segnalare, in generale, la prestazione della parte femminile della compagnia. Femmina, dunque, è una pièce riuscitissima dal punto di vista tecnico, che vuole liberarsi, secondo l’insegnamento artaudiano, del potere coercitivo del testo e del pensiero astrattivo in toto. Riscoprire la pura materia, partendo da questo per lanciare un messaggio sociale e antirazzista. Ecco il punto: un messaggio. Se il teatro è qualcosa più di un genere di nicchia, usato a volte dalla borghesia per criticare sé stessa e dunque, in realtà, confermarsi, se si ha fede nella capacità di quest’arte di rappresentare e magari interpretare la modernità, non si può scegliere come linguaggio un codice che quasi mai il pubblico riuscirà a decodificare. Femmina è una pièce forse troppo difficile: va bene, bisogna accettare che i nostri giorni sono una farragine che intimorisce, ma che è anche affascinante, ed in questo infatti il lavoro di Della Pietra è perfetto come pochi. Ma non ci si può limitare a questo, e chiudersi al pubblico: si dovrebbe lanciare un amo, tentare un messaggio, magari baluginante, ma comunque propositivo. Altrimenti si scade nel narcisismo.
Ciò ovviamente non impedisce a Femmina di essere uno spettacolo notevole, di qualità: una sfida che va accettata, così che alla provocazione segua una risposta.
(Michele Ortore)
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